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Trump, Lee e la memoria contesa delle donne di conforto

Bandiere di Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, simbolo delle tensioni diplomatiche riaccese da Trump sul tema delle “donne di conforto”.

Nell’agosto del 2025, durante il suo primo incontro ufficiale con il presidente sudcoreano Lee Jae Myung, il presidente Donald Trump ha pronunciato una frase destinata a risuonare ben oltre la Casa Bianca:

«The whole issue of the women. Comfort women. Very specifically. … very big problem for Korea, not for Japan», sottolineando che si trattava di “un grande problema per la Corea, non per il Giappone.”

Il leader americano ha riportato la questione delle donne di conforto nel cuore della diplomazia dell’Asia orientale, in un momento in cui Washington cercava di mantenere saldo l’asse strategico con Seul e Tokyo.

Il vertice di Washington: una diplomazia della memoria

L’incontro del 25 agosto 2025 aveva obiettivi chiari: discutere di sicurezza regionale, cooperazione economica e equilibrio militare nell’Indo-Pacifico. Gli Stati Uniti chiedevano un maggiore contributo economico sudcoreano al mantenimento delle truppe americane, mentre la Corea del Sud cercava un allentamento dei dazi su acciaio e semiconduttori. Ma la frase di Trump, inserita in un contesto di apparente routine diplomatica, trasformò il summit in un episodio politico.

«That’s all they wanted to talk about was comfort women… I thought that was settled a few times over the decades, but there is an overlapping problem with that»,
aggiunse, cioè: “Tutto ciò di cui volevano parlare erano le donne di conforto. Pensavo che fosse già stato risolto più volte nei decenni, ma c’è un problema sovrapposto in questa vicenda.”

Il riferimento diretto alle donne di conforto fu interpretato come un messaggio alla Corea del Sud: il passato, se gestito male, può diventare un ostacolo alla cooperazione futura.

La questione delle donne di conforto come leva politica

La questione delle donne di conforto non è nuova nella storia recente della penisola coreana. Nel 2014, il quotidiano giapponese Asahi Shimbun ritrattò una serie di articoli pubblicati negli anni Ottanta, basati su testimonianze poi giudicate inattendibili. L’episodio aprì un acceso dibattito sulla credibilità delle fonti e sulla strumentalizzazione politica del tema.

Un anno dopo, il 28 dicembre 2015, Corea del Sud e Giappone firmarono un accordo che impegnava Tokyo a versare 1 miliardo di yen a un fondo destinato alle ex-donne di conforto e a esprimere “le più sincere scuse” attraverso una lettera ufficiale. L’intesa, sostenuta dagli Stati Uniti, fu salutata come “definitiva e irreversibile”. Tuttavia, nel 2017 il governo sudcoreano guidato da Moon Jae-in la definì “difettosa” ma decise di non annullarla formalmente, mantenendo una posizione ambigua che rifletteva la divisione dell’opinione pubblica.

Nel 2025, Lee Jae Myung ha dichiarato che non avrebbe toccato quell’accordo, pur ammettendo che “per molti coreani è difficile da accettare”. La sua linea pragmatica, tuttavia, non ha impedito che il tema tornasse al centro del dibattito durante il vertice con Trump.

Statue, proteste e la contesa della memoria

Le cosiddette “marce del mercoledì” hanno avuto inizio nel 1992 come proteste di stampo marcatamente antinipponico, organizzate dal Korean Council for Justice and Remembrance. Nel 2011, davanti all’ambasciata giapponese a Seul, gli stessi attivisti hanno installato una statua dedicata alle donne di conforto, che da allora è diventata epicentro di manifestazioni regolari.

Nonostante l’accordo del 2015, con scuse ufficiali e risarcimenti economici da parte di Tokyo, le proteste sono proseguite. Il Giappone ha più volte chiesto la rimozione della statua, considerandola contraria allo spirito della riconciliazione. Nel tempo, le marce hanno assunto un carattere fortemente politico e apertamente antigiapponese, intrecciandosi con campagne di boicottaggio come il movimento No Japan, nato nel 2019.

Trump, nel suo discorso, sembra essersi riferito proprio a questo genere di mobilitazioni quando ha affermato che la Corea “era bloccata” sul tema. Un’osservazione che, pur criticata da molti, riflette il punto di vista di chi ritiene che la memoria pubblica sia diventata un campo di scontro più politico che storico.

L’interpretazione americana del passato

Nella prospettiva di Washington, le tensioni storiche tra Corea e Giappone rischiano di indebolire il fronte strategico comune nell’Indo-Pacifico. L’amministrazione Trump considera la riconciliazione un obiettivo funzionale alla stabilità regionale, più che una questione morale. Quando il presidente americano ha affermato che “il Giappone voleva andare avanti, ma la Corea era rimasta bloccata”, ha espresso la logica del pragmatismo strategico: ogni divergenza sul passato ostacola la cooperazione presente.

Tuttavia, per una parte dell’opinione pubblica sudcoreana, il tema delle donne di conforto rimane un riferimento identitario, indipendente dalle convenienze geopolitiche. Alcuni studiosi, come Park Yu-ha e Lee Young-hoon, hanno sostenuto che la questione sia stata talvolta strumentalizzata a fini politici, alimentando una narrativa anti-giapponese più che un dialogo sulla memoria condivisa.

Il nodo irrisolto della riconciliazione

Il vertice Trump-Lee ha mostrato che, a quasi un decennio dall’accordo del 2015, la questione resta aperta. Le statue, le proteste e i processi civili continuano a rappresentare un terreno di confronto fra memoria e diplomazia. Trump ha voluto ricordare che la storia può essere un ostacolo se diventa strumento di pressione politica; Lee, invece, ha scelto di rispondere con prudenza, sottolineando l’importanza del dialogo e della continuità istituzionale.

In ultima analisi, la vicenda delle donne di conforto rivela quanto la memoria, lungi dall’essere solo un fatto del passato, resti una forma di potere nel presente. E il vertice di Washington ne è stato la prova più eloquente: dietro le parole di Trump si nasconde una visione del mondo in cui anche la storia deve servire alla strategia.