Sono stati 88 i femminicidi in Italia nel 2022, in media 1 ogni 4 giorni. Nonostante il termine “femminicidio” sia stato coniato nella seconda metà del Novecento, solamente negli ultimi anni è diventata una parola con cui abbiamo confidenza e che ha iniziato a far parte del dibattito pubblico.
Che cos’è il femminicidio e la diffusione del termine
Per “femminicidio” si intende l’omicidio che ha come vittima una persona di identità di genere femminile e come movente la discriminazione di genere. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di omicidi compiuti all’interno della cerchia delle persone conosciute, in particolare da parte di padri, fratelli, partner o ex.
Nonostante il termine sia nato nella seconda metà del Novecento (e la Treccani ne attesti la presenza in inglese sin dal 1801), è solo negli ultimi anni che “femminicidio” ha assunto il suo significato attuale e ha iniziato a essere parte del dibattito pubblico. Come ha spiegato la scrittrice Michela Murgia, “c’è voluto un decennio di donne morte per mano di mariti ed ex mariti, compagni ed ex compagni, fratelli, padri, fidanzati lasciati o mai voluti per rendersi conto che la questione richiedeva un approccio mirato”.
Una questione non solo linguistica
Se è vero che la lingua è lo specchio della realtà che la utilizza, la diffusione del termine “femminicidio” rappresenta una presa di coscienza sociale dell’esistenza di un problema. Il vocabolario Devoto-Oli parla anche di una “violenza esercitata in maniera sistematica sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale”. A questo si aggiunge il proposito di “annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico della donna in quanto tale”.
L’esistenza del termine “femminicidio” non è solo quindi una questione linguistica ma è la sintetica descrizione di un fenomeno pericoloso e incredibilmente diffuso.
La legge sul femminicidio
Dal punto di vista dell’ordinamento penale italiano, la legge 119 del 2013 (anche conosciuta impropriamente come legge sul femminicidio) è un punto di partenza sulla violenza di genere, che presenta delle forme di tutela delle donne senza però codificare penalmente il femminicidio.
A porre rimedio a questo buco legislativo ci doveva pensare il cosiddetto “ddl Zan”, bocciato al Senato alla fine di ottobre 2021. Il disegno di legge, che prende il nome dal famoso parlamentare PD Alessandro Zan, prevedeva un intervento legislativo volto a porre come aggravante dei reati di violenza i “motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Se il ddl Zan fosse stato regolarmente promulgato, i femminicidi avrebbero avuto una pena più alta degli omicidi senza riferimento alla violenza di genere.
Il ruolo della politica
A fine novembre 2022 il Senato ha approvato all’unanimità l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere. Per la premier Giorgia Meloni si tratta di un tema che va affrontato “uniti, senza distinzioni”, mentre il presidente del Senato Ignazio La Russa aveva precisato che “sbaglia chi pensa sia una questione di donne, è essenzialmente una questione di uomini”. La presidente dei senatori PD Simona Malpezzi ha precisato che l’istituzione di una Commissione sul femminicidio è una “grande questione politica che impone di cambiare lo sguardo, a partire da quello maschile”.
Il femminicidio raccontato dai media
La spettacolarizzazione del dolore trova l’apice nel femminicidio, e i media in certi casi contribuiscono a perpetuare una narrazione fuorviante del fenomeno. Capita che i giornali, davanti a episodi di violenza di genere, si lancino in descrizioni di particolari inutili e che portano l’attenzione altrove.
Il Giornale, per esempio, quando nel 2019 doveva raccontare il femminicidio di Elisa Pomarelli, uccisa da Massimo Sebastiani, poi condannato a vent’anni di carcere, scriveva: “Il gigante buono e quell’amore non corrisposto”, mentre La Repubblica sintetizzava così gli interrogatori: “Le sue manone da tornitore mulinano nell’aria sopperendo alle parole che non vengono”. Sempre su La Repubblica, parlando del fatto che Pomarelli fosse lesbica, viene spiegato: “Sarebbe un’invasione voler incasellare questa ragazza in una definizione, entrare nel suo io e tentare di catalogarlo. Aveva solo 28 anni, ancora non aveva deciso che cosa fare da grande”.
Anche da parte delle singole firme dei giornali arrivano narrazioni sconcertanti. Sul sito del giornalista Nicola Porro l’autore Marco Faraci il 7 giugno 2023 sosteneva che “essere donna in Italia è una delle condizioni più sicure al mondo” ed è “inaccettabile la colpevolizzazione collettiva del genere maschile”.
Su Libero, poi, Vittorio Feltri il 25 marzo 2018 spiegava: “Il femminicidio è un dramma ma c’è di peggio”.
La responsabilità di un linguaggio
“Le parole sono importanti”, diceva Nanni Moretti in Palombella rossa ed è anche ciò che sostiene la giurista e criminologa Maria Dell’Anno: “La lingua e le parole sono uno strumento di potere. E chi utilizza la lingua e le parole per mestiere ha un potere enorme, perché costruendo ogni frase orienta l’interpretazione di chi legge decidendo di rappresentare in un certo modo la realtà sociale”.
La responsabilità, insomma, è anche nostra.